Vai al contenuto

Giancarlo Perbellini, il business della cucina: essere un grande chef in Italia

Il business della cucina è ormai un vero e proprio pilastro dell’economia italiana contemporanea, la grande tradizione culinaria del nostro Paese si è intrecciata con la spettacolarizzazione del cibo in TV, dando vita ad un mix micidiale che ha portato alla ribalta grandi chef e cuochi amatoriali.

Hanno preso vita due filoni distinti di programmi televisivi, i Contest dove si sfidano aspiranti del mestiere alle prime armi, sotto gli occhi vigili di esperti del settore, e trasmissioni condotte dai maestri della cucina che cercano di illustrare al grande pubblico quella che è una vera e propria arte.

Oggi ci concentreremo proprio sul secondo trend, grazie all’illustre contributo dello chef pluristellato Giancarlo Perbellini, che ci ha concesso un’interessante intervista.

Giancarlo Perbellini è uno chef di fama internazionale, fin da bambino coltiva una passione smisurata per la cucina, grazie all’iniziazione del nonno Ernesto  muove i primi passi in un mondo che arriverà decisamente a conquistare.

Dopo importanti esperienze in Francia, dove riempie il suo bagaglio di preziose conoscenze, torna nella sua Verona, e nel 1996 conquista la prima stella Michelin, nel 2002, la seconda.

Nel frattempo, dopo aver ricevuto premi e riconoscimenti anche in campo internazionale, decide di diventare anche un imprenditore, ruolo che ricopre tutt’oggi, titolare della ‘Colori di Cuoco’ con quote di maggioranza o con partecipazioni in sei locali (Casa Perbellini, Locanda Quattro Cuochi, Al Capitan della Cittadella, Du de Cope, Dolce Locanda e Tapasotto) più un hotel (Cinque) a Verona, un ristorante a Venezia (Il Dopolavoro Dining Room all’interno del JW Marriot Venice Resort sull’Isola delle Rose) e la ‘Locanda Italian Cuisine’ a Hong Kong in partnership con il gruppo Dining Concept.

Ma il grande evento, svolta definitiva per la sua prestigiosa carriera, avviene nel 2014, quando apre ‘Casa Perbellini’, un vezzo nella suggestiva cornice di Piazza San Zeno, sempre a Verona, solo 24 coperti, uno spettacolo esclusivo per i fortunati avventori, che possono vederlo all’opera grazie alla totale apertura della cucina a vista.

Dopo un solo anno dall’apertura, Casa Perbellini conquista due stelle Michelin, e si colloca tra le location culinarie più importanti d’Italia.

Ma chi è oggi Giancarlo Perbellini? Come la pensa sul business della cucina e sulla spettacolarizzazione del cibo?

Gli abbiamo fatto alcune domande, le sue risposte concise, dirette, tracciano chiaramente il pensiero dello chef.

Stiamo vivendo un vero e proprio boom del business della cucina, che cosa ne pensa della spettacolarizzazione culinaria e dei numerosi programmi televisivi che vedono gli chef protagonisti, sempre più icone del piccolo schermo?

Credo che ci sia un duplice effetto a riguardo, dei pro e dei contro che quest’esplosione di interesse si trascina dietro. Sicuramente questa spettacolarizzazione ha contribuito a sdoganare un mestiere che, fino a poco tempo fa, in molti consideravano marginale, poco rilevante.

Lo chef, in Francia ad esempio, è da molto tempo una professione ambita e prestigiosa, da qualche anno lo è diventata anche in Italia, anche e soprattutto grazie alla visibilità che il nostro lavoro ha ottenuto.

Inoltre la televisione ha reso nota ed accessibile tutta una terminologia fino a prima sconosciuta, che alimenta una vera e propria passione nel grande pubblico.

Dall’altro lato, però, questa visibilità che molti di noi hanno avuto, ha condotto a pensare che questo sia un mestiere semplice, che tutti possono svolgere, per questo molte persone si buttano in una carriera ipotetica senza avere delle basi reali.

La televisione, talvolta porta a credere che il nostro lavoro non comporti poi un così grande sacrificio, basta avere un po’ di passione, qualche soldo da investire per frequentare una buona scuola e tutto andrà liscio come l’olio.

Non è così. Il nostro è un mestiere di sudore e rinunce, noi lavoriamo quando glia altri si divertono, la vita sociale di uno chef è totalmente diversa da quella di una persona ‘normale’, inoltre passione e preparazione non bastano, servono le fondamenta ed un grande talento.

Come si inquadra, lei, a tal proposito. Pensa che un giorno potrebbe prestarsi a programmi di primo piano come Master Chef, ad esempio? O è qualcosa che non le interessa?

Io conduco già il mio programma televisivo, ‘Casa Perbellini’ sul canale ‘Gambero Rosso’, ma si tratta di una trasmissione molto diversa da ‘Masterchef’. Noi mostriamo il reale lavoro che sta dietro ad un grande piatto di alta cucina, cerchiamo di renderlo accessibile, cerchiamo di far capire che serve una grande preparazione, una meticolosità importante, che non vanno mai tralasciati i dettagli e, soprattutto, che per preparare del cibo eccezionale è indispensabile impiegare del tempo.

Il problema di programmi come ‘Masterchef’ o ‘Hell’s Kitchen’, è che inducono a pensare che si possa cucinare in poco tempo, tralasciando delle accortezze che, in realtà, sono strettamente necessarie.

Per cui no, non mi rivedo in quel genere televisivo e non lo condivido, non credo che mi vedrete mai in quel contesto.

Crede che questa spettacolarizzazione della cucina contribuisca a spalmare la passione tra la gente, oppure allontani i grandi protagonisti dalla professionalità in nome della visibilità?

La televisione può alimentare la passione per la cucina, ed anche avvicinare i giovani a questo mestiere. Gli show ben strutturati possono anche aiutare a migliore l’alimentazione delle famiglie italiane, che vengono esortate all’uso di ingredienti sani, con preparazioni genuine.

Per quanto riguarda, invece, i professionisti del settore che diventano stelle televisive, ho le idee molto chiare e rispondo in maniera diretta: sono nato per fare il cuoco e non smetterei mai per diventare un attore.

Come valuta la situazione culinaria italiana? Qual è la reale posizione dell’Italia rispetto al resto del mondo, aldilà delle solite dicerie sulla grande tradizione del ‘mangiar bene’?

Reputo l’attuale situazione italiana, a livello culinario, assolutamente straordinaria. Dopo l’Expo di Milano è cresciuta a dismisura una grande consapevolezza del ‘mangiar bene’ in Italia, una grande conoscenza dell’universo degli ingredienti e dell’eccezionale qualità di cui disponiamo, su tutto il nostro territorio. Credo che sia un momento d’oro per la cucina italiana, che si sta allineando al grande prestigio di quella francese, a cui, sinceramente, non ha nulla da invidiare, se non un ritardo nel riconoscere il proprio valore. Il percorso di Massimo Bottura, ad esempio, che ha ottenuto il più grande riconoscimento a livello mondiale, ha dato lustro al lavoro di tutti noi, aiutando a portare sempre più in alto il valore della cucina italiana nel mondo.

Ovviamente non possiamo non parlare dei lati negativi, in questi termini, del nostro Paese.

Purtroppo lo Stato Italiano non supporta affatto gli imprenditori, che si trovano sempre di fronte ad un percorso ad ostacoli, per via di mille cavilli burocratici ed una tassazione ai limiti del credibile.

I ristoratori sono penalizzati da mille intoppi istituzionali che ne impediscono, molto spesso, crescita e sviluppo.

Ci terrei a sottolineare, in particolare, una controversia fondamentale, ovvero la difficoltà di poter avere degli stagisti provenienti dall’estero. In paesi come la Spagna o la Francia, l’ingresso di ‘stranieri’ che possono svolgere questa mansione è praticamente libero, in Italia no.

Questo comporta molte difficoltà, tra tutte, quella che gli stagisti stranieri portano l’esperienza appresa ed accumulata durante il soggiorno, direttamente nel loro Paese, contribuendo a far viaggiare il prestigio della cucina che hanno imparato.

Come valuta la preparazione delle scuole italiane a livello culinario?

Purtroppo, rispondendo con la massima sincerità, devo affermare che, in questo senso, la situazione Italiana è disastrosa. Basta guardare i dati, soltanto l’1% dei diplomati nelle apposite scuole lavora effettivamente nell’ambito per cui si è preparato.

La scuola alberghiera italiana è in un momento molto critico per l’assenza di programmi, di soldi da poter investire per le attrezzature, che sono indispensabili per l’esperienza diretta del lavoro. Il nostro è un mestiere che va insegnato tramite il lavoro reale, l’esperienza diretta e purtroppo tutto ciò non avviene, i ragazzi non imparano la professione ed escono con una preparazione inadeguata.

Ci sono poi un’infinità di scuole alternative che stanno pullulando, i classici ‘master’, in molti casi sommari ed inutili. Spesso sono corsi per persone che hanno qualche soldo da investire, provenienti da mondi completamente differenti da quello culinario e che si gettano in quest’esperienza. Ma, come ho già detto, chef si diventa grazie ad un lungo percorso di preparazione e sacrificio, senza le basi, non possono esistere le altezze.

Che cosa ne pensa dell’innovazione in cucina?

Si tratta di un argomento molto delicato e per nulla banale. Non posso dire di essere contro all’innovazione in cucina, perché ci sono strumenti che migliorano e rendono più efficace il nostro lavoro, ma non dobbiamo mai scordare la tradizione. Mi spiego meglio con un esempio: ben vengano le cotture a bassa temperatura, ma non dobbiamo abusarne ed usarle per tutti i nostri piatti, possiamo utilizzarle per alcune specialità, ma non sempre e comunque. Dobbiamo conoscere le basi della tradizione e saper cucinare anche senza strumenti tecnologici, solo in questo modo riusciremo a sfruttare al meglio i vantaggi dell’innovazione. Serve un giusto equilibrio tra le nuove tecniche ed i metodi di un tempo, il famoso ‘occhio’, la famosa ‘mano’, sono termini che non dobbiamo perdere perché fanno parte del bagaglio di esperienze di un vero cuoco professionista.

Si definisce e si inquadra più come uno chef o un imprenditore? 

Altra domanda molto complicata (lo chef sorride).

Diciamo che posso definirmi in percentuali più o meno distribuite.

Diciamo al 30% posso definirmi ‘imprenditore’, visto che non posso esimermi dai miei compiti da scrivania, con 7 ristoranti di proprietà ed un buon fatturato da gestire, non posso trascurare il lato ‘affaristico’ del mio lavoro.

Però al 70% mi sento chef, con la solita smisurata passione per il mio lavoro, che certo, nel tempo è cambiato, non posso dedicarmi più all’intera preparazione del servizio, ma il mio mestiere resta quello di ‘cucinare’, e continuerò a farlo per sempre. La gente che viene nei miei ristoranti lo fa per mangiar bene, ma anche per vedermi all’opera: questo è il mio compito, questa è la mia missione, questa è la mia passione.