Un uomo che si presentava come “nuovo”, Marcello De Vito, arrivato in Aula Giulio Cesare sulla spinta del travolgente successo romano dei Cinque Stelle. E però figlio di un passato mai superato, quello dei favori, dei maneggi, delle comunelle tra imprenditori e politici. I soldi, al solito, come unico fine. Un uomo che poteva addirittura essere sindaco di Roma, non fosse stato per le preferenze di Gianroberto Casaleggio per Virginia Raggi, più sicura e di bell’aspetto. 
Dietro la sua caduta quella frase, l’avvertimento dell’avvocato Mazzacapo: “Noi Marce’ dobbiamo sfruttarla sta cosa, ci rimangono due anni”. Una constatazione in dialetto romanesco che significa “razziare finché si è in tempo, perché quando ti ricapita il governo nazionale e di Roma assieme?”. Due anni fa, tra l’altro, il gip aveva già appuntato come De Vito e l’ex capogruppo Paolo Ferrara si erano attivati per chiedere all’imprenditore Luca Parnasi “di promuovere la campagna elettorale” di Lombardi alla Regione Lazio.
Emblematico, in un giorno nero per i Cinque Stelle, il caso delle arance vigliaccamente portate in campidoglio dagli esponenti di CasaPound. Un gesto vergognoso, indubbiamente. E che però ricorda molto da vicino quel 3 dicembre 2014 che aveva visto i vari Di Battista, Di Maio e De Vito stesso presentarsi con gli agrumi per chiedere le immediate dimissioni di Ignazio Marino.
Dopo l’arresto, Di Maio scarica De Vito: “Fuori dal Movimento Cinque Stelle”