Il telefono come unico strumento per comunicare, nella speranza che non suoni. “Significherebbe che c’è stato un peggioramento”. Mattia, 18 anni di Cremona, era stato portato in ospedale dopo che la febbre gli era iniziata a salire ed erano arrivati i problemi respiratori. “Polmonite da coronavirus” era stata la diagnosi, terribile, dei medici che lo avevano visitato con tutte le precauzione, sospettando già il terribile verdetto. Era il 16 marzo e da quel momento il ragazzo non ha più potuto vedere la sua famiglia.
Diciotto anni, Luca frequenta l’ultimo anno dell’Itis, con indirizzo elettronico, ed è descritto da tutti come un bravo ragazzo. Una vita semplice, la sua. Gli amici, gli affetti, le partite di calcio seguite allo stadio per tifare la sua Inter. Le sue condizioni sono descritte dai medici come “stabili ma sempre gravi”. La madre Orietta racconta: “Ho supplicato i medici di farmelo vedere, anche attraverso il vetro. Purtroppo non è stato possibile, ci sono delle regole. Allora ho fatto un patto con le infermiere: vanno da lui, lo accarezzano e gli dicono: questa è la carezza di tua mamma”.
“La sera, quando chiudo gli occhi, per un attimo mi sembra di vederlo che mi telefona dalla sua stanza a tre metri dalla mia, io che mi arrabbio sempre perché non si alza. Allora mi scappa un sorriso e lo sento più vicino”. A dare forza a Orietta è la speranza, quella di ricevere finalmente una chiamata dal telefono giusto, quello del figlio. Risentire la sua voce. E potersi lasciare finalmente questo incubo alle spalle.Il sogno spezzato di Luca, morto di coronavirus a Londra dove sognava di diventare cuoco