Angiolina Zarri
Dolcezza. Questa forse è la parola che può sintetizzare al meglio un piccolo capolavoro come questo. Ma non si deve correre il rischio di sottovalutare la potenza di tale concetto, perché non è certo sinonimo di melenso o stucchevole. In realtà l’ultimo film di Terry Gilliam, L’uomo che uccise Don Chisciotte è come una pallina di piombo. Con otto tentativi di realizzazione e circa 20 anni per scriverlo e realizzarlo, si è meritato a pieno titolo il podio del development hell. Ma come altrimenti tendere all’inarrivabile, alla bellezza, alla perfezione creativa.
Un gioco di specchi che rapisce lo sguardo dello spettatore che non sa più dove guardare perché gli occhi non sono abbastanza grandi e lo schermo è troppo lontano, l’effetto straniante è una vertigine molto più vicina di quello che si possa pensare, perché – non è ben chiaro come – a un certo punto è evidente che la giostra che si ha di fronte è dentro lo sguardo di chi si trova davanti allo schermo. Vero, verissimo, può sembrare esagerato, ma è proprio la costruzione del racconto che è folle all’ennesima potenza e nel film stesso (nell’eterno gioco dei rimandi) essere definiti tali è un complimento, qualcosa di cui essere grati.
Qualcuno parlerebbe di mise en abyme, quel gioco prospettico di sapore escheriano in cui ci si riflette all’infinito. È un film romantico, ma è anche un film d’azione, con combattimenti e inseguimenti e sparatorie sanguinarie. Il discorso intertestuale è ricchissimo e va dai Goonies a Non aprite quella porta, passando per Pretty Woman e James bond. Dal set al suk, dalla corte barocca alla processione della settimana santa. È così pieno che sembra troppo, ma per questo è così simile alla vita, all’immagine che ci fingiamo e al suo contrario. Surreale, poetico, divertente e struggente.Polizia alla proiezione del film su Stefano Cucchi: l’attacco della sorella Ilaria