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Emergenza Covid, dall’università in corsia: “Così ho formato i colleghi infermieri in sette giorni”

In questo periodo di crisi dovuto al virus Covid-19, ci sono degli eroi che lavorano giorno e notte per salvare più vite umane possibili. Ma l’ emergenza sanitaria ha richiesto anche forze fresche, reclute passate dai libri all’atto pratico, senza aver avuto alcun tipo addestramento concreto sul campo. Dario D. è uno di questi, 31 anni, nato a Pontecorvo, in Ciociaria, e trasferitosi a Monza, nel Nord Italia, in prima linea contro il virus, ha dovuto fare i conti con giovani colleghi volenterosi ma inesperti. Il “veterano” si è così reinventato un ruolo da trainer, intensificando l’impegno e accelerando i tempi di formazione in piena pandemia: “È stato un tour de force – ha ammesso Dario in un intervista con Repubblica – perché il periodo di affiancamento nei reparti di terapia intensiva, che normalmente dura sei mesi, in questo periodo si è drasticamente ridotto a due, massimo sette giorni”. E’ stata la necessità di formare velocemente chi ancora non era pronto alla prima linea, a dare l’ispirazione a nuove strategie diverse e performanti: “Gestire un paziente intensivo – ha precisato Dario – è estremamente complesso da un punto di vista assistenziale, spesso le competenze richieste esulano dalla formazione universitaria di base”.

La teoria è importante, ma è la pratica che forma
“All’università, ad esempio – ha proseguito Dario – ti insegnano cos’è un elettrocardiogramma, ma quando hai davanti un monitor che lancia tanti segnali e non riesci ad interpretare le anomalie in modo corretto, allora capisci che quello che hai imparato sui libri non basta”. Lo testimoniano le nuove reclute che hanno avuto come punto di riferimento proprio Dario che il camice lo indossa da 9 anni: “Ho visto il terrore nei loro occhi, la paura sui loro volti, una volta entrati in rianimazione – ha ricordato l’infermiere – molti di loro erano spaesati davanti a ventilatori, monitoraggi, pazienti instabili e intubati, mi chiedevano aiuto su come preparare un farmaco oppure su come utilizzare un determinato dispositivo”. Ma con l’ emergenza che bussa alla porta all’improvviso, Dario ha dovuto gestire lo stress dei nuovi e rispondere a tutti i dubbi delle giovani leve: “Una ragazza, ad esempio, mi ha chiesto se poteva somministrare al paziente un farmaco salvavita con un altro medicinale. Ma erano incompatibili. Bisognava separarli e lei, invece, li stava mischiando.Un altro ragazzo, invece, non sapeva come approcciarsi a un paziente sedato, era impacciato”. Per Dario aver messo i neolaureati in terapia intensiva “è stata quasi una scelta obbligata ma non la più giusta: con una formazione triennale non si può pretendere che l’infermiere sia una pedina da mettere in qualsiasi posto, men che meno in un’area critica come quella intensiva”. In questo reparto sono presenti apparecchiature che “non tutti i giovani colleghi sono in grado di leggere. Tant’è che a qualcuno di loro alcuni valori artefatti sembravano critici”.Controllare la saturazione dell’ossigeno oppure posizionare gli accessi vascolari o gestire le vie aeree respiratorie, la parte neurologia e l’emodinamica del paziente “sono possibili dopo un periodo di affiancamento”, insiste Dario. “Tutti – ha spiegato il giovane infermiere – si sono messi in discussione e hanno dato il massimo”. Perché la guerra al Covid la combattono i veterani. Ma in piena emergenza sanitaria, nei giorni in cui la curva della pandemia è cresciuta servivano energie fresche e da formare già in battaglia.

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