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Italia: il business della disfatta, un crollo difficile da calcolare

Che cosa c’entra la disfatta mondiale con il business?

Tutto.

Il sistema calcio italiano è imploso mentre, contorcendosi su stesso, zampillava rozze lacrime da coccodrillo. Una debacle con pochi precedenti, un tonfo sordo, che risuona implacabile dal Sud Tirolo a Lampedusa; si consuma uno spettacolo infingardo, con la regia di tristi drammaturghi incapaci, che ricalcano con precisione il fumetto raffigurante il nostro Paese.

Il calcio è la metonimia di un’Italia in subbuglio, che nei momenti difficili si è aggrappata alla magia dello sport per strappare abbracci e sorrisi, per superare barriere d’odio e disincanto.

Il calcio è una voce del prodotto interno lordo italiano, con un indotto che spesso ci appare paradossale, di fronte al filo spinato che circonda il vivere quotidiano, ma non possiamo non ammetterne l’importanza, quantomeno come feticcio popolare.

Palliativo di un crollo costante, maschera al ballo dei perdenti: i mondiali sono il maestrale dopo l’afa d’estate, sono la coperta sul divano mentre fuori piove.

I mondiali servono, i mondiali sono una cosa seria.

Non si tratta di tragedie o calende greche, come i non appassionati ammoniscono, in questi giorni in cui non si parlerà d’altro, no, per cortesia.

Nessuno ne fa un affare di stato che scavalchi i reali drammi che ci affliggono, la riflessione si sposta su quegli aspetti meno farraginosi e più superficiali, che però, inevitabilmente, fanno parte di noi.

Durante i mondiali succede sempre qualcosa di bello, c’è aggregazione, c’è complicità, nascono gli amori, si consolidano le amicizie, ci si riunisce, si dice o si fa qualcosa di stupido e divertente, che poi ci ricordiamo per anni.

Durante i mondiali si urla, si ride, si festeggia, si piange per qualcosa di brutto che, in realtà, è poco importante, durante i mondiali si cantano canzoni che poi scolpiamo nella pietra della memoria, si svuotano le strade, si riempiono i bar e… siamo tutti meno soli.

CHE COSA È SUCCESSO?

Da studioso accademico alla cattedra del pallone, potrei deviare la discussione sui moduli, sulle scelte del mister, sul frigorifero vuoto di talenti, sulla tattica, sulla tecnica ma…

La storia ci insegna che nei momenti di difficoltà generale, che si tratti di argomenti seri come la vita, o giocondi come lo sport, dopo una bruciante sconfitta, dopo una cocente delusione, la prima mossa della massa, è la ricerca spasmodica e sistematica di un capro espiatorio.

Lo si fa anche prima di piangere, perfino prima di lamentarsi, addirittura a precedere il monologo del vittimismo.

Milioni di italiani hanno intagliato nel legno il burattino raffigurante Giampiero Ventura, levigato e pitturato, lo conducono sul monte Sinai in una processione urlante. Possiamo discutere ore sulla figura di un allenatore che ha dimostrato grandissime capacità di lavoro con i giovani, possiamo scrivere libri sull’inadeguatezza di un C.T. che vanta 7 presenze in campo internazionale ed è chiamato a guidare una nazionale in evidente carenza di fenomeni. Possiamo riesumare l’oscura figura di Torquemada inquisitore, per fare un processo ad uomo che ha le sue responsabilità effettive, ma che non può essere considerato l’unico stregone colpevole.

L’ira di molti, e come dar loro torto, si è scatenata su di un personaggio alquanto discutibile e grigio, una statua dedicata a quella parte di classe dirigente italiana obsoleta e corrotta, invischiata, impantanata, infangata nelle sabbie mobili del qualunquismo, nella palude delle raccomandazioni, nelle acque ristagnanti della politica.

Tale Carlo  Tavecchio, sulla cui etimologia onomastica si può fare dell’ironia per mesi interi, già al centro di polemiche grottesche, che avevano evidenziato di giallo fosforescente un’indole razzista e troglodita, resta spiaccicato sulla sua fetida poltrona di comando.

Il presidente della ‘Feder’ (che sarebbe Federcalcio ma non me la sento di associare la parola calcio a questa Federazione), in concomitanza con un altro ‘matusa’ che si trincera dietro una sommaria conoscenza del latino, ha dato vita a meri spettacoli eticamente osceni, attestati da filmati e telefonate, che si sono poi tradotti in decisioni ridicole, che hanno frantumato in mille pezzi ciò che resta di questo gioco.

Lo schiavismo dei proprietari terrieri televisivi, ha trasformato il nostro campionato in un tenzone casuale, in cui i giganti fanno a botte con i nani, dando vita ad uno spettacolo poco appetibile.

La serie A a 20 squadre, con una distribuzione dei compensi dei diritti Tv che fa rabbrividire, ha creato una voragine profonda, conducendo quello che era il palcoscenico più appetibile del mondo, nel baratro degli esimi.

Detto questo l’Italia non è fuori dai mondiali per colpa di Ventura e di Tavecchio, l’Italia è stata vittima della sua stessa supponenza, a Milano, lunedì sera, c’era perfino chi intonava “Siam Campioni del Mondo”… che sarebbe come se Miss Italia 2006 continuasse a professarsi la ventenne più bella del Paese.

Facciamo una grande fatica ad accettare questo disastro, perché nel nostro DNA ci sono i residui degli antenati, particelle che, geneticamente, ci suggeriscono che il piccolo stivale pesta tutte le altre nazioni, quando si parla di rettangolo verde.

Ed invece non è più così, il calcio langue sotto i colpi dei Mangiafuoco, i procuratori, che orchestrano ingressi ed uscite dalle squadre del Paese, come buttafuori alla porta di una discoteca. I settori giovanili traboccano di approssimazione, dando vita ad un mix culturale che privilegia sempre e comunque chi non è italiano.

Anche se non credo affatto all’affermazione che siano i troppi stranieri a rovinare il nostro calcio, in Germania ce ne sono altrettanti, così come in Spagna, per non parlare della Premier League inglese…

La differenza sostanziale è che nelle altre nazioni si investe anche sugli stranieri, in Italia alla parola ‘anche’ si sostituisce ‘solo’. È facilissimo vedere tantissimi giovani scivolare nel campionato cadetto (quello a 100 squadre, altra questione su cui potremmo discutere), imprigionati nelle serie ulteriormente minori, vedendosi scavalcati da pseudo calciatori, magari neppure giovani, ma che possono vantare diverse consonanti nel cognome.

Potremmo discutere per ore, potrei continuare per giorni, ma è il momento di collegare il fallimento al business, così, tanto per rendersi conto un po’ meglio della debacle, che descritta dai numeri risuona ancora più acuta e ci spacca le orecchie.

IL CROLLO DEL BUSINESS

Una perdita complessiva calcolata in 100 milioni di euro per il sistema, dei quali più di 40 graveranno direttamente sulla Federazione, divisi in diverse voci.

Intanto non arriveranno i 10 testoni per la partecipazione alla manifestazione in Russia, dopodiché ci sarà una perdita fisiologica dei proventi di sponsor tecnico (Puma, che sborsa 18 milioni annui) e della televisione che avrebbe trasmesso le partite del campionato del mondo (Rai, 26 milioni).

Incalcolabile, invece, la perdita generale nazionale durante il periodo della rassegna mondiale, partendo dalle televisioni, pubbliche e private, fino ad arrivare alle singole attività commerciali dei cittadini, che vedranno letteralmente crollare le previsioni di guadagno durante le calde sere di giugno: si stima che bar, pub e locali guadagneranno il 5% da questo mondiale, rispetto a quello che è stato il profitto dell’ultimo campionato del mondo con l’Italia tra le protagoniste.

DAI DISCORSI ALLA VERGOGNA

E per chiudere, sempre parlando di business, numeri e guadagni, sono passate più di 40 ore dal consumo di questo dramma sportivo: Ventura e Tavecchio non hanno ancora ufficializzato le dimissioni.

Anzi, si sta parlando di trattative e di buonuscite.

Lascio a voi il finale della riflessione. Per quanto mi riguarda questa notizia, ovvero che questi due personaggi non hanno chinato la testa facendo un passo indietro, è la vera, reale, effettiva, squallida spiegazione alla disfatta. Possiamo discuterne ancora, ma la vera motivazione è questa, perché dipinge alla perfezione il quadro del momento: Ventura e Tavecchio non si sono ancora dimessi, il primo perché vuole trattare sui soldi ancora da ricevere, il secondo perché non rinuncerebbe alle banconote incollate sulla sua putrida poltrona, nemmeno sotto tortura.

Ecco a voi l’Italia del calcio, dove pensavamo di andare?

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