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Manovra, poveri noi! Nel testo finale più tasse, meno investimenti e rischio crescita

Come riassumere la manovra del governo? Così: più tasse, meno investimenti e rischio crescita. L’impianto della manovra su cui si sono accese le risse di questi giorni alla Camera è molto diverso da quello approvato in prima lettura a Montecitorio solo 22 giorni fa. Le modifiche decise dal governo e ratificate nell’esame sprint al Senato non si sono limitate a cambiare il peso complessivo della legge di bilancio, ma ne hanno modificato gli equilibri interni, a partire dai rapporti fra spesa corrente e investimenti e fra misure espansive e recessive. Un’altra follia – e l’ennesimo sgarbo istituzionale – da parte della maggioranza gialloverde.

In sintesi, le novità si traducono in tre cifre chiave: un valore della manovra alleggerito ai 31 miliardi indicati dal ministro dell’Economia Tria, 7,2 miliardi di deficit nominale in meno rispetto alla versione del balcone e un effetto stimato sulla crescita ridotto a quattro decimali di Pil dai sei decimali dei primi due programmi inviati a Bruxelles.

Nel frattempo, la congiuntura raffreddata ha tagliato anche i calcoli sulla crescita tendenziale, cioè quella che il Paese raggiungerebbe senza le nuove misure. Il compito delle regole approvate definitivamente è quindi di far accelerare l’economia italiana nel 2019 dal +0,6% tendenziale al +1% fissato come nuovo obiettivo dal governo, e non dal +0,9% al +1,5% scritto nelle vecchie e contestate tabelle del Mef. Dietro a questi numeri macro si nascondono gli effetti concreti dell’architettura ripensata della manovra.

E le conseguenti nuove incognite da affrontare a Bruxelles e sui mercati a partire da gennaio. L’incrocio fra gli 1,2 miliardi di maggiori entrate prodotte dai correttivi dell’emendamento europeo (nuove tasse sui giochi, web tax, tagli a crediti d’imposta e il contestato e già parzialmente rinnegato raddoppio dell’Ires sul non profit), la crescita di base più modesta e l’effetto espansivo più contenuto produce prima di tutto l’aumento di pressione fiscale dal 42% al 42,4% illustrato dal presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio nell’audizione di giovedì a Montecitorio.

E la strada scelta per riportare il deficit nominale previsto al 2% riduce di 4,6 miliardi i fondi appostati per l’avvio di reddito di cittadinanza e quota 100, e sposta quote importanti di investimenti dal 2019 agli anni successivi. Quando però sono coperti dalle maxi-clausole Iva che i leader di maggioranza hanno già detto di voler cancellare. Da qui le incognite aggiuntive. È sempre l’Upb a calcolare per l’anno prossimo una riduzione da 1,1 miliardi rispetto al tendenziale nei capitoli di bilancio dedicati a “investimenti e contributi agli investimenti”.

Il governo non ne calcola un impatto recessivo perché conta di compensare questa riprogrammazione con un’accelerata nell’utilizzo dei fondi europei, anche grazie a una norma messa in manovra che prova a imporre alle Regioni l’utilizzo prioritario di queste risorse. Ma la mossa è da provare sul campo. Mentre i timori di una crescita negativa anche nel quarto trimestre di quest’anno dopo il -0,1% fatto segnare nel terzo sollevano nuovi rischi di non centrare davvero nemmeno gli obiettivi rivisti di aumento del prodotto.

 

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