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Il vero deficit è al 4%: quello che i gialloverdi non dicono, i numeri di una manovra che fa tremare l’Italia e (soprattutto) i contribuenti

Il governo continua a dare i numeri, quelli di una manovra che ha fatto e farà discutere e della quale, in sintesi, il dato sbandierato è quel 2,4% nel rapporto deficit/Pil strappato a un ministro dell’Economia Tria mai così in imbarazzo, al punto da aver pensato a dimissioni anticipate. Si è invocato a più riprese, in merito, il modello francese, utilizzato da Di Maio come termine di paragone proprio per giustificare la scelta del governo gialloverde. Un’analogia, però, che non regge il confronto, come evidenziato dal Plf 2019 licenziato dal governo transalpino, il documento con gli obiettivi di finanza pubblica per il prossimo anno.

Nel Plf è disegnato il piano di finanza pubblica del governo francese fino al 2022. Il deficit in rapporto al prodotto interno lordo, che quest’anno sarà del 2,6%, in leggera discesa sul 2,7% del 2017, risalirà al 2,8% nel 2019, per poi scendere gradualmente fino allo 0,3% del 2022. Il debito pubblico, pari quest’anno al 98,7% del Pil, si ridurrà nel 2019 solo di 0,1 (98,6%) e poi proseguirà la discesa fino al 92,7% del 2022. Dice il vicepremier, Luigi Di Maio: facciamo come la Francia. Ma l’Italia può permettersi di alzare il deficit fino al 2,4% o più?

Prima di cedere alle pressioni gialloverdi, Tria stesso aveva risposto in maniera negativa osservando che avrebbe poco senso aumentare la spesa pubblica o tagliare le tasse facendo ricorso a un incremento del deficit. Infatti, se le maggiori spese (poniamo per il reddito di cittadinanza) e le minori entrate (flat tax) non fossero finanziate, almeno in parte, con risorse trovate nel bilancio stesso (tagli di spesa e/o nuove entrate) ma totalmente in deficit, bisognerebbe mettere in conto un aumento della spesa per oneri sul debito pubblico, che si scaricherebbe sui contribuenti. Vediamo perché.

Se aumenta il deficit in rapporto al Pil, salirà anche il debito, cioè i soldi che lo Stato chiede in prestito agli investitori offrendo loro titoli pubblici (Bot, Btp, eccetera). E qui arriviamo al vero nodo della questione. Per ottenere questi prestiti, lo Stato deve offrire un rendimento. I mercati, cioè gli investitori, chiederanno interessi tanto più alti quanto più forte è il rischio, reale o percepito non importa, che il debito non venga ripagato. Questo rischio sale in funzione di quanto è grande lo stesso debito in rapporto al Pil e delle prospettive di crescita e di stabilità del Paese. La differenza tra Francia e Italia è tutta qua. I cugini d’Oltralpe godono di un rating alto (Aa2, per Mood’s) noi di uno basso (Baa2), sei scalini sotto la Francia.

Nelle ultime ore lo spread, cioè il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato decennali della Francia e quelli della Germania, era di appena 32 punti base in più, per un rendimento pari a 0,84%. In Italia, invece, il differenziale è stato di 243 punti, per un rendimento del 2,94%. Quindi, paghiamo molto di più per farci prestare i soldi. La controprova? Nel Plf si legge che la Francia spende per oneri sul debito pubblico fra i 41 e i 42 miliardi l’anno, pari all’1,7% del Pil. L’Italia, invece, per remunerare chi compra i nostri titoli di Stato versa 65,6 miliardi, pari al 3,8% del Pil (dati 2017). Intanto dalla City viene fatto qualche calcolo sulla base della proposta di manovra del governo ed emerge questo per l’Italia. Un’analisi allarmante…

Dicono: una volta stabilito il il tetto del 2,4%, se si aggiunge un punto di tendenziale e si arriva a 3,4, dato che il Pil non sarà 1,4 ma 1, si arriva a quasi 4 punti di deficit. Questo vuol dire 65 miliardi di debito in più solo nel 2019, cioè invece che emettere 400 miliardi, il prossimo anno ne verrebbero emessi 465. Chi comprerebbe una bomba così se la BCE non compra?

Comunque, pare che sulla manovra l’accordo si sia già trovato e che quella di questi giorni sia solo una grande sceneggiata per accontentare gli elettori che vogliono lo spettacolo e per accrescere ancora di più il protagonismo di Di Maio e Salvini per attestarsi come leader forti contro l’ordine costituito. Ognuno resterà al suo posto e la manovra andrà liscia. I numeri, però, come vediamo preoccupano e non poco. Le disgrazie ricadranno sui cittadini, non di certo sui politici. Si salvi chi può.

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