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Problemi sul lavoro: le conseguenze inattese dell'essere troppo buoni

Prova a immaginare otto persone che si riuniscono con lo scopo di prendere decisioni strategiche per l’azienda. C’è positività e voglia di ottenere il risultato sperato. Tuttavia due membri del gruppo trattengono delle informazioni importanti o delle prospettive di cui gli altri non erano a conoscenza. Tutti sanno bene che le vendite sono in sofferenza e hanno ascoltato i rimbrotti del CEO numerose volte.
Tuttavia solo una persona conosce i movimenti recenti di un competitor, mentre l’altro ha informazioni interessanti riguardanti una tecnologia in grado di fare la differenza.
Naturalmente l’obiettivo di riunire più persone in una stanza dovrebbe essere quella di fare in modo che le informazioni rilevanti siano esposte per il bene dell’azienda.
In un’ambiente lavorativo che valorizza l’armonia e il rispetto, queste informazioni corrono invece il rischio di essere insabbiate a causa di una strana forma di pregiudizio sulle condivisione delle informazioni che è oggetto di studio da parte degli psicologi.
In un’organizzazione in cui le persone sono “buone”, i membri di un team tendono a rispettare gli altrui sentimenti e a tutelare il loro status fisiologico a breve termine. Essi danno per scontato che la loro sopravvivenza e il loro avanzamento si basa su quanto buoni riescono ad essere e quanto fanno stare bene gli altri, in relazione ai risultati prodotti.
E’ noto che un modo per far star bene un gruppo di persone al lavoro è ripetere e ri-confenzionare informazioni che tutti conoscono. Nel momento in cui ripeti, magari con una formula diversa, le stesse informazioni che sono state dette dalla persona che ha parlato prima di te, otterrai consensi. Le teste di chi ascolta inizieranno ad annuire in segno di approvazione e chi parla riuscirà a propagare un sentimento positivo, ma verrà a mancare del tutto lo spirito critico. Chi si oppone o chi ha informazioni nuove e rilevanti, inizierà a soffrire di amnesie e si morderà la lingua perché sentirà che è meglio non obiettare ma unirsi a questa giungla di buonismo. Ci saranno sorrisi e persino la persona che aveva un punto di vista diverso si unirà a quest’armonia senza nemmeno accorgersene.
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In altre parole essere buoni può produrre un costo.
L’enfasi sulla bontà può infatti rappresentare un limite sia alla capacità di prendere decisioni e sia alla creatività, poiché si corre il rischio di limitare il numero di contributi da parte di un gruppo. Chi ha qualcosa da dire potrebbe sentirsi escluso, isolato dalla festa!
Paradossalmente il buonismo esagerato rinforza il pregiudizio culturale verso donne e persone di colore. Una cultura fatta di bontà respinge chi è diverso e chi non si adatta in modo subdolo, diventa un luogo esclusivo dove uomini simili tra loro, e dunque bianchi, sguazzano evitando di contraddirsi.
Il fatto è che spesso l’informazione unica è detenuta da individui che non hanno uno status importante. Quindi, con ogni probabilità, specie negli Stati Uniti, potrà trattarsi di donne o persone non bianche. Tutti sanno cosa pensano i manager e sanno anche che ripetere i loro concetti focalizzandosi su ciò che loro amano discutere contribuisce a mantenere intatta l’atmosfera buonista. Chi è lontano dai centri di potere rischia di più e hanno poco da guadagnare nell’opporsi a quest’atmosfera. Tra l’altro, le donne, più degli uomini, sono state educate con l’aspettativa culturale di essere “buone”.
I luoghi di lavoro troppo buoni quindi possono diventare delle tirannie di conformismo ed ineguaglianza. Se l’aspettativa di armonia è stata impostata, è raro che venga anche chiarito quanto si è liberi di generare un contraddittorio e quanto e quando questo sia accettabile.

Ridefinire il concetto di rispetto

Specialmente in un ambiente che è propenso a innovare, a migliorare la performance, la creatività e l’eguaglianza è necessario far capire ai leader quali siano gli effetti distruttivi di una cultura eccessivamente buona.
Il rispetto non significa un’imposizione di armonia. Il vero rispetto è altresì invitare le persone ad ascoltare punti di vista diversi, prospettive che rompono gli schemi, contraddicono e addirittura indeboliscono le posizioni di altri, persino di manager di comprovata esperienza. Questo anche a costo di rendere il gruppo di lavoro meno felice e sorridente.
Esistono delle tecniche precise per risolvere il problema del pregiudizio relativo alla condivisione delle informazioni.
Prima di un meeting, tutti dovrebbero scriversi le informazioni importanti da condividere. Questo per evitare l’effetto amnesia che ha luogo quando si ascolta un pensiero dominante. I leader dovrebbero parlare per ultimi, limitandosi ad ascoltare le informazioni reputate importanti ed evitando anche di giudicarle sul momento. Un meeting per essere realmente inclusivo deve dare la possibilità di parlare senza timore reverenziale. Forse in questo modo l’atmosfera sarà meno amichevole ma la performance e la creatività migliorano.
Inoltre, è importante anche ammettere che un ambiente lavorativo che richiede rispetto è in realtà aggressivo perché impone un codice di comportamento che a volte è controproducente. La critica costruttiva è pur sempre una critica ma cozza con il fatto di apparire “buono”. In sostanza, un’azienda del genere mette avanti la sicurezza ed il comfort delle persone all’intelligenza ed all’espressione.
Il risultato è un’azienda “buona” ma non “gentile” o “rispettosa”. Valorizzare le idee dando spazio alla creatività è la vera forma di rispetto.
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