Vai al contenuto

Quello (sporco?) affare del gasdotto Tap: 45 miliardi tra sospetti e ombre

Dopo un periodo di grande attenzione mediatica durato una manciata di mesi, tra la primavera e l’autunno del 2017, quasi più nessuno parla del gasdotto Tap. O meglio, se ne parla nelle stanze del potere come è normale che sia per opere di tale portata. Sì perché il Tap non è solo un’infrastruttura di grande rilievo sull’asse est-ovest, è un colossale affare che coinvolge le potenze mondiali, dalla Russia di Putin agli Stati Uniti di Donald Trump, passando per le multinazionali leader del settore energetico. Il progetto può contare anche sul supporto di uomini politici di rilievo come Tony Blair, l’ex premier laburista che svolge un ruolo di consulente strategico. Blair nei giorni scorsi ha incontrato il Ministro degli Interni e vicepremier italiano Matteo Salvini con l’obiettivo di sciogliere il “nodo” italiano. E’ nota infatti la contrarietà che parte della maggioranza di governo, in particolare dentro al Movimento 5 Stelle, ha espresso nei confronti dell’impatto ambientale dell’opera sul territorio italiano.

Che cos’è il Tap

Ma prima di tutto, cos’è il Tap? Il Trans Adriatic Pipeline è solo l’ultimo tratto di un gigantesco gasdotto lungo quasi quattromila chilometri di condotte per trasportare enormi quantità di metano dall’Azerbaijan all’Italia. Il troncone iniziale, denominato Scp, parte dal giacimento azero di Shah Deniz 2 e attraversa la Georgia. Quindi nella seconda parte del suo tragitto il gasdotto attraversa tutta la Turchia assumendo la denominazione di Tanap. Il Tap è  quindi l’ultimo tratto, lungo 878 chilometri: dal Bosforo attraverso le montagne di Grecia ed Albania il gasdotto si inabissa in mare per poi risalire sulla costa italiana, in Salento. Il costo definitivo dell’opera è stimato in 45 miliardi di Euro.

Il terminale del gasdotto da record è in Italia

Secondo il progetto definitivo, la condotta del Tap dovrebbe riemergerà sulla spiaggia di San Foca, a Melendugno, dove nella primavera del 2017 scoppiarono vibrate proteste popolari in seguito allo sradicamento di secolari olivi per far spazio al cantiere del gasdotto. Proteste sostenute o comunque ascoltate dal Movimento 5 Stelle, oggi al governo. Qui sono in corso i lavori di realizzazione del micro-tunnel previsto dal ministero dell’Ambiente fin dalla prima approvazione del progetto (governo Monti) per non devastare una delle perle del turismo italiano, la costa del Salento. In pratica sarà realizzata una galleria di cemento che parte in mare, a 800 metri dalla riva. Quindi la conduttura attraverso questa galleria passerà sotto la spiaggia per riaffiorare in mezzo ai campi, a 700 metri dalla riva del mare. Il terminale del gasdotto è in Italia, proprio in Puglia. Da Melendugno infatti sono previsti altri 8,2 km di condotta fino a un nuovo terminale di recezione. Ed è proprio qui che il progetto ha l’impatto maggiore con l’ambiente: il consorzio Tap prevede infatti di spostare 1.900 alberi secolari, tutti ulivi, per far spazio all’impianto di recezione. Per non parlare degli altri 55 chilometri necessari alla condotta per arrivare fino a Mesagne e collegarsi alla rete nazionale del gas. Secondo la stima degli oppositori del progetto gli ulivi a rischio in tutto sarebbero diecimila.

Chi realizza il Tap, a chi interessa e chi lo paga

La società capofila del progetto del maxi gasdotto tra Azerbaijan e Italia e la svizzera Tap Ag. Dietro a questa sigla ci sono alcune grandi aziende multinazionali dell’energia (Snam, Bp, Fluxys, Enagas, Az-tap), ma soprattutto c’è stata all’inizio un’azienda il cui nome ricordava l’Italia, ma aveva sede in Lussemburgo. Questa azienda, secondo alcuni documenti della Commissione Ue portati alla luce da un’inchiesta del settimanale L’Espresso, avrebbe ricevuto rilevanti finanziamenti a fondo perduto. Già, perché se l’opera è considerata strategica per l’interesse nazionale significa che può ricevere investimenti pubblici che non prevedono restituzione del capitale. L’azienda si chiama Egl Produzione Italia, è una società per azioni con 200 mila euro di capitale, ma è controllata dalla Egl lussemburghese, a sua volta posseduta dal gruppo elvetico Axpo, che fa capo a diversi cantoni della Svizzera tedesca. Oggi Egl Produzione Italia ha cambiato nome, non esiste più. “Axpo Italia è oggi uno dei maggiori player con una presenza lungo l’intera catena dell’energia. Axpo Italia, precedentemente Egl Italia, ha la sua sede centrale a Genova, e sedi commerciali e di rappresentanza a Milano e Roma”, si legge in una presentazione ufficiale dell’azienda. Ma la sostanza non cambia, almeno, non la storia dei primi finanziamenti ottenuti dal progetto Tap. Già, perché nel 2009 la Commissione europea accetta di cambiare il beneficiario del residuo finanziamento a fondo perduto, dirottato dalla Egl alla Tap Asset spa, un’altra filiale di Axpo con sede a Roma. Quindi la vendita del progetto, per almeno 12 milioni di euro, all’attuale capofila Tap Ag.  Nell’affare come detto, c’è comunanza d’interessi tra Washington e Mosca. Il Tap, immaginato inizialmente come corridoio alternativo a quello di Gazprom e quindi appoggiato dagli Usa in funzione anti-Cremlino, oggi vede la partecipazione del gigante russo Lukoil, entrato con il 10 per cento di capitale nel consorzio guidato dalla inglese Bp e dalla società azera Socar per sfruttare il giacimento di Shah Deniz 2, proprio quello del Tap.

Perché il Tap viene definito un affare sporco da alcune inchieste giornalistiche

Senza dubbio il Tap è un’opera strategica per l’Italia, garantendo l’apporto di gas naturale da uno dei giacimenti più grandi del mondo. Ed è anche un’opera strategica nello scacchiere politico internazionale. Non a caso trova concordi sulla sua realizzazione sia il presidente americano Trump che il presidente russo Putin. Trump in occasione della prima visita di Stato del neo presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte a Washington a fine luglio ha portato a casa l’impegno del premier italiano a mediare per superare gli ostacoli italiani alla realizzazione del Tap. Ostacoli che in teoria non dovrebbero nemmeno esistere: essendo stata inserita tra le opere strategiche da ben tre governi (Monti, Letta, Renzi), per il suo via libera basta una valutazione d’impatto ambientale del Ministero competente. Ma perché il Tap guadagna l’appellativo di affare sporco in alcune inchieste giornalistiche? Ancora una volta al centro della vicenda c’è l’ormai scomparsa Egl Produzione Italia, il cui amministratore delegato era Raffaele Tognacca, ex manager del gruppo petrolifero Erg e in politica con i liberali in Canton Ticino. E cosa ci sarebbe di strano? Nulla se non che Tognacca e la moglie hanno aperto una società che si chiama Viva Transfer. Secondo un’inchiesta del 2014  della Guardia di Finanza coordinata dal Pm Michele Prestipino la società sarebbe rimasta implicata in un maxi riciclaggio di denaro frutto del narcotraffico di una cosca della ‘ndrangheta calabrese. Tuttavia le autorità elvetiche non hanno ritenuto di procedere nei confronti di Tognacca che, anzi, ha sempre rimarcato di non essere stato mai indagato né in Italia né in Svizzera ed ha querelato L’Espresso per aver pubblicato le accuse nei suoi confronti. Insomma, che ci sia il riciclaggio di denaro sporco dietro all’affare Tap è al momento una pura illazione ed un collegamento piuttosto ardito, non provato da alcuna inchiesta della Magistratura né italiana né svizzera.