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Sergio Marchionne: le sue frasi celebri, un manager ammirato

Sergio Marchionne, 66 anni, è morto a Zurigo, dopo un ricovero durato 28 giorni e di cui il mondo non ha saputo nulla fino a sabato scorso, quando era stato John Elkann ad annunciare «con profondo dolore» una situazione clinica partita da una operazione alla spalla e improvvisamente compromessa da complicazioni «impensabili». Ed è stato sempre lui, il presidente di Fiat Chrysler, a diffondere una nota ufficiale della sua dipartita: «Sergio, l’uomo e l’amico, se n’è andato. È accaduto ciò che temevamo. Io e la mia famiglia gli saremo sempre riconoscenti per quello che ha fatto e siamo vicini a Manuela e ai figli Alessio e Tyler». Mentre la notizia della scomparsa di Marchionne apre i giornali di queste mattine, ci interroghiamo sul valore del suo operato e su quale eredità lascia un manager come lui tanto ammirato quanto criticato. Marchionne è stato sia un uomo di sistema sia un outsider. Negli Stati Uniti e in Italia. Il manager italocanadese ha modificato profondamente l’industria dell’auto internazionale. In questo non è stato mai solo. Lui è l’ultimo di uno schiatta di manager provenienti da altri settori che, poco per volta, dagli anni Novanta hanno preso piede in una industria dominata per un secolo dai car guy, i ragazzi dell’auto americani e tedeschi, per lo più ingegneri cresciuti con l’ossessione della produzione e delle tecnologie e senza esperienze in altri campi.

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Sergio Marchionne lascia un segno indelebile

Il manager italocanadese ha lasciato un segno indelebile nella economia, nella società e nella politica italiane. Nei suoi primi anni, ha infatti operato insieme alle banche e ai sindacati del nostro Paese per evitare il disonore del fallimento alla Fiat. È stato un autentico uomo di sistema, in grado di collaborare pienamente con le banche che hanno garantito alla Fiat e alle finanziarie degli Agnelli Elkann il sostegno necessario e capace di tessere relazioni proficue e personali con i sindacalisti italiani, perfino quelli della Fiom-Cgil. Marchionne sapeva che la Fiat si risanava ripartendo dalle fabbriche, e qui si riflette anche la sua identità personale. Nel 2009 convince Barack Obama a cedere la Chrysler alla Fiat. Poi il fallimento del progetto a tre fulcri –Italia, Stati Uniti e Germania – porta alla definitiva americanizzazione della Fiat.

La scomparsa di Sergio Marchionne, un grande manager che ha innovato e diviso, che ha avuto un ruolo fondamentale dell’industria e nell’economia italiana, e non solo, ma anche nelle relazioni con il sindacato e con la Confindustria. Quali sono stati gli elementi di novità del suo mandato? Cosa resterà di questo modello? Sergio Marchionne era un po’ lo Steve Jobs italiano: ostinato, impaziente, riluttante a scendere a compromessi. A distanza ammirava il fondatore di Apple, e lo aveva anche incontrato più volte. Come lui, indossava sempre un maglione, come lui viveva per il suo lavoro, e come lui ovviamente usava un Mac. 

Sergio Marchionne è stato un manager ammirato, talvolta criticato, ma sempre dedito al lavoro e all’azienda. Ogni giorno sveglia alle 3.30 per mettersi presto al computer. Tante ore in volo, tra Stati Uniti, Italia, Brasile, Svizzera, per seguire gli affari. Grande fumatore, era appassionato di musica, carte, cucina, giardinaggio. Non frequentava i salotti mondani, preferendo trascorrere il poco tempo libero con la famiglia.

 

Alcune frasi celebri di Sergio Marchionne

«Siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa facciate duri una vita intera o perfino più a lungo».

«La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste».

«I leader, i grandi leader, sono persone che hanno una capacità fenomenale di disegnare e ridisegnare relazioni di collaborazione creativa all’interno dei loro team».

«Il diritto a guidare l’azienda è un privilegio e come tale è concesso soltanto a coloro che hanno dimostrato o dimostrano il potenziale a essere leader e che producono risultati concreti di prestazioni di business».

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Sulle auto e la Fiat

«Fiat ce la farà; il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici».

«Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?».

«Ai miei collaboratori, al gruppo di ragazzi che sta rilanciando la Fiat, raccomando sempre di non seguire linee prevedibili, perché al traguardo della prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti. E magari arriveranno prima di noi».

«Voglio che la Fiat diventi la Apple dell’auto. E la 500 sarà il nostro iPod».

«Lavoriamo in un settore in cui il metodo e il processo sono fondamentali. Noi saremo sempre come la musica, improvviseremo, saremo agili, aperti al dibattito, umili, ma impavidi e non ci sarà mai posto per la mediocrità».

«Non lascio copioni: Fca è un insieme di culture e di manager nati dalle avversità».

«Non possiamo mai dire: le cose vanno bene. Semmai: le cose non vanno male. Dobbiamo essere paranoici. Il percorso è difficilissimo. Siamo dei sopravvissuti e l’onore dei sopravvissuti è sopravvivere».

«Non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un’istituzione del paese in cui sono cresciuto».

Su lavoro e impresa

«Dobbiamo evitare di essere arroganti. Il successo non è mai permanente, ma deve essere guadagnato giorno per giorno».

«Il carisma non è tutto. Come la bellezza nelle donne: alla lunga non basta».

«Quello che ho imparato da tutte le esperienze di amministratore delegato negli ultimi dieci anni è che la cultura aziendale non è solo un elemento della partita, ma è la partita stessa. Le organizzazioni, in sintesi, non sono null’altro che l’insieme della volontà collettiva e delle aspirazioni delle persone coinvolte».

«Non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che abbiano trenta o sessant’anni».

«Concentrarsi su se stessi è una così piccola ambizione».

«Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi».

«La prospettiva con cui ci si deve muovere non può essere quella assistenziale. La cultura dell’assistenzialismo produce dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso di responsabilità».

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Sull’Italia

«La tesi generale è che se la Fiat va bene, l’economia italiana tira, aumentano le esportazioni, aumenta il reddito, crescono i posti di lavoro. Insomma, ciò che è bene per la Fiat è bene anche per l’Italia. Credo sia vero, perlomeno in parte, e comunque ci impegneremo perché ciò accada. Ma credo sia ancora più vero il contrario: ciò che è bene per l’Italia è bene per la Fiat».

«L’Italia è un Paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione».

«L’Italia è un paese con una delle più grandi ma inespresse potenzialità che io conosca, è un Paese che non si vuole bene. Sulle prime quattro o cinque pagine dei giornali si legge solo di litigi e di discussioni che non hanno impatto sull’Italia e sul futuro dei giovani. Se non smettiamo di portare avanti questi dibattiti, non faremo molta strada».

«Noi italiani siamo da sempre il Paese dei Gattopardi. A parole vogliamo che tutto cambi, ma solo perché tutto rimanga com’è».

Sulla sua vita

«I miei maglioni hanno un piccolo tricolore sulla manica. E lo porto con orgoglio, io».

«Io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri».

«Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro».

«Dopo la prima laurea in filosofia mio padre aveva già scelto il colore del taxi che voleva farmi guidare perché diceva che non sarebbe servita a nulla».

«Io in politica? Scherziamo? Faccio il metalmeccanico, produco auto, camion e trattori».

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