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“La commessa morta a Brescia potevo essere io”: la testimonianza di Alessandra nella sua quotidiana trincea del supermercato in cui lavora

Oltre a figure professionali come medici, infermieri e operatori sanitari che si occupano di svolgere un lavoro essenziale rischiando in prima linea la propria salute, in tempi di coronavirus ci sono anche lavoratori che pur restando nell’ombra stanno svolgendo un servizio necessario e fondamentale. Ne sa qualcosa Alessandra Durastante, che da 21 anni lavora presso l’Auchan di Vicenza, e come tanti altri addetti ai supermercati, nonostante il forte rischio di poter contrarre il coronavirus sta continuando a recarsi come sempre sul posto di lavoro per non far mancar a nessuno in casa qualsiasi genere di prima necessità. “Nei primi momenti abbiamo davvero temuto per noi stessi e per la nostra salute e ci siamo sentiti molto vulnerabili – ha affermato la donna in un’intervista per il sito di notizie Aleteia -. Il Governo ha deciso di tenere aperti i supermercati, oltre che ovviamente ospedali e farmacie, però per queste due ultime realtà c’è stato un occhio di riguardo mentre per la mia, non sono state prese misure di sicurezza immediate. Nella fase iniziale non sapevamo quali potessero essere i nostri diritti e i limiti entro i quali lavorare senza esporci troppo al rischio di contagio”.

Ancora poca sicurezza al lavoro
“In questo momento nel punto vendita dove lavoro, sono state stabilite delle regole. Sono state messe le barriere di plexiglass davanti alla cassa, in modo tale che la cassiera non sia completamente esposta al cliente che di solito staziona lì davanti per una distanza anche inferiore al metro, e una barriera all’accoglienza dove i clienti si fermano per chiedere informazioni. Queste novità sono state apportate intorno al 14 marzo scorso – ha ricordato Alessandra -. Fino a quella data eravamo esposti completamente: i clienti entravano senza mascherina, noi non ce l’avevamo, i guanti sono arrivati un po’ a rilento, i disinfettanti per le mani non li abbiamo visti fino a poco tempo fa”.

Un alto rischio anche per i familiari
“Sia io che mio marito lavoriamo nella grande distribuzione, lui è caporeparto commerciale e lavora in un supermercato, quindi entrambi siamo molto esposti e corriamo il rischio di ammalarci e far ammalare la famiglia”, ha ricordato Alessandra. Infatti spesso la questione passa in secondo piano, ma il lavoratore oltre a correre il rischio di contrarre il virus, ha una forte possibilità di portarselo in casa propria, facendo così ammalare anche gli altri membri della famiglia. “Abbiamo due figli di 7 e 9 anni e la prima cosa che ci siamo sentiti di fare è quella di dormire separati: uno in taverna, l’altro in camera per provare a mantenere la distanza. Anche con i bambini cerchiamo di non avvicinarci più di tanto, per cui anche gli abbracci, i baci, in questo momento vengono meno purtroppo”.

La morte della collega di Brescia
“Quando ho appreso la notizia la prima cosa che ho pensato è stata: poteva capitare a me. Una donna di 48 anni che sicuramente aveva famiglia e che se non fosse stato per questo virus non sarebbe morta. Io credo che avrebbero dovuto chiudere tutto molto prima”. Secondo Alessandra, tenere aperti servizi necessari come i supermercati, perché oltre a fornire appunto i beni di prima necessità fa anche in modo che non si creino allarmismo e panico da parte della popolazione. Peccato che, come ha confermato la donna, la teoria si è discostata dalla realtà: si è verificato infatti la corsa agli approvvigionamenti in maniera abnorme, con beni di prima necessità come farina e lievito non si trovavano più, ma sono spariti dagli scaffali anche prodotti igienizzanti come amuchina, guanti, candeggina, alcool. “Ci sono stati approvvigionamenti anomali perché le persone erano molto spaventate. Quando ci sono arrivate le mascherine di panno, tipo swiffer, ci siamo resi conto che erano inadeguate e ci è sembrata un po’ una beffa”.

Dietro un lavoro silenzioso c’è un grande servizio
“Il supermercato oggi ha un ruolo sociale, perché i clienti più anziani, le persone che hanno delle difficoltà o che sono sole, sanno che venire da noi significa ricevere anche una parola buona, un sorriso: la cassiera che fa la battuta, il salumiere che conosce già le abitudini. Questo infonde loro tanta sicurezza, non li fa sentire completamente isolati. Un giorno ero in cassa e un cliente guardandomi attentamente negli occhi mi ha detto: “La ringrazio per il lavoro che state facendo. Voi siete qui tutti i giorni, quando tante altre categorie sono a casa”. Mi ha emozionato. È un lavoro silenzioso il nostro, però è un grosso servizio”.

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