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Alessandro Cecchi Paone condannato: ha diffamato Giorgia Meloni

Alessandro Cecchi Paone condannato dal Tribunale di Roma. Dovrà risarcire con 20mila euro i danni alla reputazione e all’immagine Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. Ma cosa è successo? I fatti contestati al giornalista risalgono al periodo del Covid, quando Cecchi Paone accusò in diretta televisiva i meloniani di essere responsabili di troppi decessi a causa di alcune loro dichiarazioni sbagliate sul virus.
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Cecchi Paone condannato Meloni

Cecchi Paone condannato per diffamazione contro la Meloni

Accadde tutto durante la puntata del 14 luglio 2021 della trasmissione Zona Bianca, in onda su Rete 4. Il tema della puntata era il green pass. Dopo aver letto un tweet della Meloni sull’argomento, Cecchi Paone affermò che la responsabilità dei 130mila morti e la perdita di dieci punti del Pil fosse attribuibile “anche alla destra no vax” di cui faceva parte secondo lui anche Fratelli d’Italia, in quel momento all’opposizione del governo Draghi. Accuse per cui ora il divulgatore scientifico è stato condannato.

“Hanno continuamente chiesto di aprire”, così Cecchi Paone puntava il dito in diretta tv contro il partito della Meloni che si sarebbe opposto con troppa forza alle restrizioni imposte da Draghi e Speranza, favorendo così la diffusione del Covid. Tesi respinta al mittente da FdI durante il processo in cui poi il giornalista è stato condannato.

Il partito di Giorgia Meloni sostiene di essere sì stato favorevole alle riaperture delle attività, ma solo se potevano assicurare adeguate misure di contenimento del rischio virus. Respinte anche le accuse di Cecchi Paone di aver fatto propaganda contro l’uso delle mascherine o di essere addirittura contrari ai vaccini, mente invece c’erano solo dei dubbi sull’obbligatorietà dell’iniezione. Da queste basi è partita la richiesta di risarcimento per cui ora Cecchi Paone è stato condannato dal Tribunale di Roma. Il giudice non ha accolto nemmeno la motivazione della difesa sul “diritto di critica”, motivando questa decisione con la mancanza del “requisito della verità del fatto attribuito”.
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