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Intelligenza artificiale: i robot nel mondo del lavoro

Con l’avvento dell’intelligenza artificiale e della tecnologia blockchain l’ampiezza e le ripercussioni della AI oggi sono indiscutibili. Questa scarica tecnologica esplosiva ci obbliga a porci una domanda: l’intelligenza artificiale riuscirà davvero in un futuro non troppo lontano a rubarci il lavoro?

Pertanto, sembra che mentre il mercato del lavoro si è evoluto per adattarsi alla crescente tendenza dell’intelligenza artificiale, c’è chi però affronta questo cambiamento con un po’ di timore, un momento di ansia generale sul futuro del lavoro.

Le persone intelligenti temono che l’intelligenza artificiale e i robot stiano rapidamente eliminando posti di lavoro. Secondo una stima pubblicata da BCG e dal World Economic Forum il mese scorso, 1,4 milioni di posti di lavoro americani saranno sostituiti dall’automazione nel corso dei prossimi otto anni. Un’altro recente rapporto di PWC prevede che fino al 40% dei posti di lavoro nel Regno Unito potrebbe scomparire entro il 2030. Secondo McKinsey, la metà dei posti di lavoro in tutto il mondo potrebbe essere trasferita nei prossimi 20 anni. Questi esperti possono litigare sul numero di posti di lavoro a rischio, ma il consenso generale è: molto.

L’ AI eliminerà di certo alcuni lavori, ma ne creerà infinitamente di più. Secondo una ricerca di Gartner, circa 1,8 milioni di posti di lavoro saranno spazzati via entro il 2020, ma ne verranno creati oltre 2,3 milioni.

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Gli aspetti positivi dell’intelligenza artificiale

L’AI creerà sicuramente nuovi posti di lavoro per coloro che sono disposti ad abbracciare le nuove tecnologie. Molti posti di lavoro si trasformeranno. In sostanza le tecnologie per quanto innovative avranno sempre bisogno della supervisione di un essere umano, questo implica che crescerà il numero di manager, nel caso specifico di AI Manager.

L’ultimo rapporto di Accenture Strategy, intitolato Reworking the Revolutionevidenzia le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale, e il loro impatto sull’economia. Secondo la multinazionale, che ha utilizzato tecniche di ricerca quantitative e qualitative per analizzare le opinioni di lavoratori e manager aziendali, grazie all’intelligenza artificiale i ricavi delle imprese potrebbero crescere del 38% entro il 2020, ma solo se investiranno in una efficace cooperazione uomo-macchina, almeno quanto già fanno le aziende leader di mercato.  

Se queste condizioni si concretizzeranno, anche l’occupazione ne beneficerà, registrando un aumento del 10%. Per l’economia mondiale globale significherebbe una crescita dei profitti pari a 4,8 trilioni di dollari

Ma come centrare questi obiettivi

“Per riuscire a crescere nell’era dell’intelligenza artificiale, le aziende devono investire di più in formazione, così da preparare i dipendenti a un nuovo modo di lavorare in cooperazione con le macchine – ha dichiarato Marco Morchio, ‎Accenture Strategy Lead per Italia, Europa centrale e Grecia -. La capacità di integrare rapidamente tecnologia intelligente e capacità umana, in tutte le funzioni aziendali, sarà sempre più un elemento imprescindibile per il successo e la crescita delle imprese”. 

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Cosa vuol dire studiare l’intelligenza artificiale

Studiare l’intelligenza artificiale vuol dire studiare l’intelligenza umana, comprenderne il funzionamento per replicarne i meccanismi. Per lo scienziato britannico Alan Turing, ad esempio, una macchina è intelligente se è capace di convincere chi la sta utilizzando che ha di fronte una persona. Il computer risponde a domande specifiche, rivolte contemporaneamente anche a un uomo, e i membri della giuria devono cercare di capire chi dei due è il loro interlocutore. Il test, descritto in Macchine calcolatrici e intelligenza, si considera superato se il computer riesce a ingannare i giudici almeno un terzo delle volte. 

“In tutte le definizioni di intelligenza c’è un punto debole”, osserva Marcello Pelillo, professore ordinario di informatica all’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore dello European Centre for Living Technology. “Il test di Turing fornisce però una definizione operativa, basata su quello che una macchina è in grado di fare, e per questo dopo 68 anni è ancora valido”.

Turing aveva previsto che un giorno o l’altro un calcolatore avrebbe superato la sua prova, eppure il criterio con cui una macchina viene equiparata a un essere umano non lusinga né l’uno né l’altro: l’intelligenza artificiale è la capacità di ingannare gli uomini, di far credere di essere diversi da quello che si è. Ma simulare un pensiero è già un pensiero? “Allo stato attuale, è difficile sostenere che i computer siano capaci di pensare – prosegue Pelillo – non fanno altro che manipolare dei simboli”.

Analizzano quantità enormi di dati e forniscono risposte a precise domande, tenendo conto dell’interlocutore, della situazione, del contesto. A Siri chiediamo che tempo fa, a Google Assistant se c’è traffico, a Cortana di suggerirci un film da vedere, ad Alexa di suonare una canzone. Sistemi più complessi investono in borsa, controllano reti elettriche, interpretano esami clinici, tracciano rotte di aerei e camion. Ma l’intelligenza artificiale dà risposte, non fa domande: a porle è l’intelligenza umana.  

Previsioni per il futuro

Nonostante i limiti dell’intelligenza artificiale nella sua forma attuale, è possibile che molte attività ordinarie finiranno inevitabilmente per automatizzarsi man mano che l’intelligenza artificiale e i robot diventeranno più potenti e capaci. 

Negli ultimi anni, è diventato ormai convenzionale saggezza che i drammatici progressi della robotica e dell’intelligenza artificiale ci hanno messo sulla strada di un futuro senza lavoro. Questa preoccupazione per l’automazione è comprensibile alla luce dei progressi inarrestabili che le aziende tecnologiche hanno fatto ultimamente in robotica e intelligenza artificiale.

E l’idea di dover affrontare una presunta disoccupazione tecnologica, certamente si confonde con la consapevolezza di vivere in un’epoca di innovazione senza precedenti e in accelerazione.

È una storia drammatica la disoccupazione tecnologica, ma una cosa è certa: non ci sono molte prove che questo stia accadendo davvero. O forse si?

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