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Strage di Belgrado, il racconto terribile del primo medico entrato nella scuola: “Una montagna di corpi di bambini”

Sono trascorsi 20 giorni dalla strage compiuta a Belgrado, in Serbia, da Kosta Kecmanovic. Lo studente 13enne, dopo aver rubato una pistola calibro nove millimetri al padre, è entrato nella sua scuola situata nel quartire residenziale di Vracar. Alla fine il giovanissimo killer ha ucciso otto coetanei e il guardiano dell’istituto. Oggi il primo medico entrato nella scuola dell’orrore, Aleksandar Stijacic, ricostruisce con Repubblica le scene agghiaccianti che ha visto.
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Belgrado strage scuola medico

Il racconto del medico entrato nella scuola della strage di Belgrado

“La chiamata diceva solo che il guardiano era stato ferito da un’arma da fuoco. – racconta il medico testimone oculare della strage nella scuola di Belgrado – Nient’altro. Quindi ero tranquillo, ho pensato che fosse stato un incidente, una roba casuale, sa, l’istituto primario Ribnakar è il più rinomato della capitale. Una sparatoria? A Vracar? Ma chi ci poteva pensare? Fatta da un ragazzino, poi, come nei licei americani”
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“Quando arrivo fuori dalla scuola il capannello di gente che si è nel frattempo formato mi trascina al bar lì vicino, dove ci sono un ragazzo con un foro in una gamba, che non sanguinava molto, e una ragazza, sdraiata. – prosegue il medico testimone della strage di Belgrado – Sono stata ferita allo stomaco e al braccio, mi dice. È bianca come uno straccio, spaventata ma riesce a parlare. Perché due bambini, che avranno avuto 13 o 14 anni, sono feriti in quel modo? Che diavolo sta succedendo, mi chiedo. Devono essere portati subito in ospedale, li faccio medicare dai miei colleghi perché io devo entrare alla Ribnakar. So che sto per infrangere la prima regola di sicurezza della medicina d’urgenza, che avvicinarsi al luogo di un incidente prima che la polizia mi dica che è sicuro. Non so se la sparatoria è ancora in corso, non so se il killer è dentro o è già stato portato via da quei poliziotti che intravedo muoversi nei pressi dell’ingresso. So solo che dentro ci sono bambini che hanno bisogno di me. In quel momento realizzo che sarà una giornata complicata”.

“C’è un silenzio che non so definire. – ricorda il medico di Belgrado – Un silenzio tragico. Con la coda dell’occhio vedo alcuni alunni sopravvissuti correre via in cortile, ma sono pochi. Sento il rumore dei miei passi sul pavimento, sento il cuore che mi batte nel petto e una sensazione di soffocamento. Quel primo uomo…pover’uomo, si è preso chissà quante pallottole, giace lì in una pozza di sangue (si tratta del guardiano, Dragan Vlahovic, di cui Kosta era amico, ndr). È morto, non c’è dubbio. Poco più avanti, nel corridoio, il tavolo con i corpi di due giovani studentesse. La prima è riversa col volto sul tavolo, le braccia in avanti, in una posizione orribile e scomposta. L’altro cadavere giace alla sua sinistra, accanto al pianoforti. Mi basta un’occhiata a capire che sono morte entrambe e che non c’è niente da fare. Il sangue mi gela nelle vene quando mi accorgo che sono state uccise con un colpo di pistola alla testa. Come è possibile avere quella mira, quella fredda precisione, a tredici anni?”.

“La scia di sangue portava a quella classe, la VII-2. Apro la porta e all’interno vedo una cosa che il mio cervello ci mette un po’ a decifrare e comprendere. Al centro dell’aula c’era una montagna di corpi di ragazzi e ragazze assassinati con precisi colpi di pistola. Le gambe in posizione innaturale, le braccia scomposte, i rivoli di sangue ancora caldo, gli occhi senza più vita. Ho l’impressione che chi li ha uccisi li abbia sistemati uno sopra l’altro. Quale mente malata può fare una cosa del genere, e a che scopo? Sono da solo nell’aula. Penso che non sono al sicuro, che forse sentirò un proiettile conficcarsi nella mia testa, perché sono arrivato lì subito dopo il momento in cui è arrivata la pattuglia della polizia. Tutto era ancora aperto, non recintato. Cerco di razionalizzare, devo capire chi tra quei corpi è ancora in vita e chi è un cadavere. Chiamo il centralinista del pronto soccorso e gli dico di mandare tutte le squadre di medici disponibili. Ci sono molti bambini morti, molti bambini feriti, gli dico. Tempo 3-4 minuti sono arrivate cinque squadre”.

“La più grande tragedia che ho vissuto. – conclude poi il medico testimone della strage nella scuola di Belgrado – Una mia amica che conosco molto bene, mi chiama e dice “per favore aiutami, non riesco a trovare mia figlia, era una studentessa di turno”. Capisco che è una delle due bambine morte uccise nel corridoio. Cosa potevo fare? Dovevo dire a quella donna ‘sì, tua figlia è morta qui, a cinque metri da me, dietro l’angolo’? Non potevo! Quindi le ho mentito. Le ho detto che non l’avevo vista. Le dico di stare tranquilla. La conosco da anni, conosco suo marito, siamo amici di famiglia…è stata una delle cose più difficili della mia vita. Quando mi hanno detto che era stato un bambino di 13 anni non ci potevo credere, avrei preferito sapere che era stato un alieno. La prima cosa che ho fatto, dopo, è prendere il telefono e chiamare i miei figli, che sono grandi. Ho dovuto chiamarli, sentire la loro voce, assicurarmi che erano vivi”.
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