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Lavoro e diritti: Gig Economy cos'è

Precari, sottopagati e senza diritti. Tre parole per riassumere quasi un’intera generazione di giovani cresciuti a pane e lavoro 4.0. Ci sono loro dietro a ogni consegna, ordine, passaggio e servizio definito low cost. Sì, perché oggi tutto costa meno e possiamo averlo in modi sempre più comodi e veloci. Ma a pagare il prezzo più salato di quella che ormai viene comunemente – e un po’ pomposamente – definita la quarta rivoluzione industriale sono proprio gli addetti in questione, impegnati in un settore trasversale, in crescita e senza regole. La paga oraria di un fattorino di Amazon o di un rider di altre aziende di food deliery è di circa 7-8 euro lordi. E se non lavora non guadagna.

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Cos’è la gig economy

In un mondo messo alla prova dalla crisi economica il settore dell’impiego e i contratti di lavoro ne hanno fatto le spese. In un contesto del genere si è sviluppata la gig economy. Si tratta di un particolare sistema che riesce a fare a meno dei classici contratti a tempo indeterminato o alle prestazioni continuative, legata al digitale e diventata ormai, nell’indifferenza generale, la nuova frontiera della precarietà.  Un modello che, se da un lato offre molte possibilità, non riesce a sostituirsi al modello tradizionale. Amazon, Uber, le imprese di consegne di alimenti a domicilio come Deliveroo o Foodora si avvalgono del lavoro digitale per abbattere i costi della manodopera.

Con gig economy si intende un modello economico sempre più diffuso dove non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze.

Nella gig economy si lavora on demand. Ovvero solo quando c’è la necessità delle nostre competenze e delle nostre abilità. Alcuni corrieri o i driver di Uber, sono chiari esempi di figure professionali all’interno della gig economy. Se vogliamo renderla ancora più semplice, è il trionfo dei “lavoretti”. Fino a poco tempo fa una situazione lavorativa del genere non sarebbe stata considerata una buona opzione economica, e invece vista la crisi del lavoro, al momento molte persone stanno sfruttando le opportunità occupazionali, anche se molto saltuarie, offerte da siti, applicazioni e piattaforme web.

Nella gig economy i lavoratori sono tutti in proprio (in inglese self-employed) e svolgono attività temporanee / interinali / part time / saltuarie / provvisorie.

Tutela dei lavoratori

Il vero problema della gig economy sono le tutele nei confronti dei lavoratori. Non essendoci dei veri e propri contratti difficilmente le persone ricevono lo status di dipendenti con le conseguenti agevolazioni, pensionistiche e sanitarie, del caso. Se la gig economy dovesse crescere ancora, e gli analisti del mercato sono molto propensi a quest’eventualità, sarà fondamentale per le persone chiedere e ottenere dai governi nazionali delle nuove regolamentazioni. Nuove leggi che permettano una maggiore tutela a chi lavora on demand. In Italia è stato fatto il primo passo riconoscendo e facilitando il telelavoro, ma sarà necessario fare ancora molti passi in avanti.

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Il futuro della gig economy

Secondo molti analisti di mercato il futuro della gig economy dipenderà dalla capacità dei politici di adeguare le leggi a queste nuove forme di lavoro. In maniera tale da tutelare sia i dipendenti che le aziende. Il politico britannico Matthew Taylor ha proposto una soluzione per questo problema: si tratta della creazione di una specifica categoria di lavoratori, una sorta di freelance che va a posizionarsi tra le aziende ed i lavoratori con contratto fisso. Nonostante questa posizione lavorativa abbastanza incerta, la nuova categoria dovrà rientrare nei benefici che hanno le persone con regolare contratto, come la malattia, gli extra pagati, e in alcuni casi, i giorni festivi retribuiti.

Le startup della gig economy

Le startup della cosiddetta gig economy, sono molto criticate per il modo in cui trattano i loro lavoratori. Aziende come Uber e Postmates sostengono che i loro collaboratori sono lavoratori autonomi o appaltatori indipendenti più che dei dipendenti a tempo pieno. A questa flessibilità si affianca la mancanza di servizi e di sicurezza sul lavoro che i lavoratori si aspettano dalle aziende.

Questi corrieri sono inquadrati in una collaborazione organizzata dal committente, per esempio nella gestione dei turni, devono indossare un’uniforme di rappresentanza, ma devono sobbarcarsi i costi degli strumenti di lavoro, come smartphone e bicicletta.

Un’inchiesta recente del New York Times ha scoperto che Uber sta sperimentando le scienze comportamentali per spingere i lavoratori (teoricamente indipendenti) a lavorare più ore, a volte in orari e in posti meno redditizi.

Per poter continuare a dire che il loro personale non è in realtà il loro personale, è importante che queste aziende mantengano questa facciata, sono tutti gli aspetti. Il Financial Times è venuto in possesso di un documento che illustra le linee guida linguistiche di Deliveroo, un’azienda di consegne a domicilio con sede nel Regno Unito. Il documento mostra fino a che punto le aziende della sharing economy si spingono pur di limitare il rapporto di lavoro e le responsabilità verso i loro lavoratori.

Nel Regno Unito il governo è sotto pressing per un «intervento d’emergenza», visto che l’asticella media dei pagamenti è arrivata a minimi di 2,5 sterline l’ora. E negli Stati Uniti, culla del fenomeno, un report del portale Earnest ha stimato che l’85% dei lavoratori ricava meno di 500 dollari mensili da prestazioni che vanno dal trasporto privato (Uber) alle commissioni accumulate su siti per freelance come Fiverr.

Per i rider che lavorano con Deliveroo: definendoli “fornitori indipendenti”, l’azienda non è obbligata a garantire i benefici previsti dal diritto britannico. Così funziona la gig economy, “l’economia dei lavoretti”, di cui anche Foodora fa parte: come a chiamata si consuma la cena, così a chiamata si convocano i lavoratori. 

Il processo produttivo, se di produzione si può parlare, avviene attraverso un’applicazione per smartphone: vengono raccolti gli ordini che sono trasmessi in tempo reale ai relativi ristoranti e infine il fattorino di riferimento della zona riceve la notifica di una nuova consegna da fare. I lavoratori sono fattorini, operai della logistica, sebbene l’azienda preferisca definirli rider.

Ecco che ritorna la questione di un’organizzazione del lavoro funzionale alla massimizzazione dei profitti attraverso la riduzione delle retribuzioni e dei diritti e l’intensificarsi dei turni di lavoro.

Cosa rappresenta l’economia on demand

Inoltre, anche in questo caso l’economia on demand non rappresenta un’innovazione che sviluppa nuovi mercati, ma ne trasforma di esistenti, abbattendo il costo fisso del lavoro, anacronisticamente, fino al cottimo. Si compie così un vero e proprio ribaltamento: l’assenza di un salario legale impedisce quella che un tempo era definita la libertà nel lavoro e cioè la possibilità di godere di un tempo di vita oltre il lavoro.

Una degenerazione che non riguarda solo l’Italia ma che investe più in generale tutti i paesi a capitalismo avanzato. Ma si sa, in Italia i lavoratori costano meno che nel resto d’Europa, in Francia un fattorino costa, ad alcune aziende di food delivery, sette euro all’ora più due per ogni consegna. Salario a parte, il regime contrattuale francese è lo stesso: nessun rapporto di subordinazione formale, tutti collaboratori, imprenditori di se stessi.

Un processo sempre più radicale di sfruttamento della forza lavoro spesso mascherato da enormi pubblicità che strizzano l’occhio a consumatori sempre più distratti. La maggior parte delle persone considera la gig economy– il modello economico basato su prestazioni lavorative temporaneeun disastro per i lavoratori. Le persone che lavorano all’altro capo delle app che usiamo comunemente spesso non sono in contatto tra loro e non si considerano un’unica classe di lavoratori.

Dai fattorini ai rider, dagli autisti agli operai della logistica fino ai tuttofare, la gig economy concentra il grosso dei guadagni nelle mani dei pochi che possiedono la piattaforma e che trattengono una commissione da chi svolge la prestazione. Il lavoratore ci mette l’attrezzatura, il know how, i rischi e qualcuno in cambio di una commissione, offre la piattaforma su cui far incontrare la domanda con l’offerta.  Assunzioni zero. E’ questo il futuro del lavoro?

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